Candidosi Vaginale

Che cosa è la Candida?

La candidosi (la Candida Albicans è la specie più diffusa) è una infezione causata da micro-organismi nello specifico da funghi che sta diventando una fra le più frequenti infezioni ginecologiche, in aumento non solo fra le donne e le adolescenti in età fertile, ma anche fra gli uomini.

La causa è proprio da ricercarsi nella scarsa informazione sulle cause ed i fattori di rischio di questa patologia o nel protrarsi di comportamenti scorretti che ne favoriscono l’insorgenza.

Lo ha evidenziato un recente sondaggio online, condotto dalla SIGO, fra oltre 3 mila utenti in occasione di una campagna di informazione sui disturbi femminili, da cui è emerso che all’incirca il 70% delle donne e il 28% delle adolescenti almeno una volta nella vita ha dovuto fare i conti con la candida e la sua sintomatologia.

Questa è caratterizzata da prurito, bruciore vaginale, perdite caseose biancastre, ma anche da dolore durante i rapporti sessuali tanto da costringere 8 donne su 10, in presenza dell’infezione micotica (fungina) e in fase acuta, a rinunciare all’intimità di coppia e a soffrire di un generale peggioramento della qualità della vita.

La candida non è una patologia grave o preoccupante, ma è trasmissibile con un effetto ‘ping pong’ da partner a partner; per questa ragione e per il fatto che può facilmente ripresentarsi (recidivare), va trattata con attenzione.

Una volta accertata la diagnosi, che va effettuata con un tampone vaginale eventualmente prelevando una piccola quantità di materiale da sottoporre ad analisi specifica, o tramite un test rapido (di qualche minuto) chiamato test di filamentizzazione che deve comunque essere accompagnato da analisi delle urine e del sangue per scongiurare che il fungo si sia diffuso all’interno del corpo, si procede a una terapia antimicotica locale, di norma con pomate/ovuli specifici, da applicare per più giorni secondo modalità e durata che deve essere indicata dal ginecologo o dallo specialista.

A volte è necessaria la terapia per bocca perché le terapie vaginali non sempre danno risultati duraturi e se utilizzate a lungo possono addirittura peggiorare i sintomi della candida.

Come evitare che la candida si ripresenti?

Con l’adozione di semplici comportamenti che possono servire da profilassi e contribuire a una corretta prevenzione contro questa fastidiosa infezione.

Innanzitutto, occorrerebbe evitare di sottoporre l’organismo a forti o prolungati periodi di stress che possono favorirne l’insorgenza e soprattutto è importante seguire una dieta equilibrata che limiti l’apporto di zuccheri e lievito a favore di un maggior consumo di yogurt con fermenti lattici vivi prebiotici (es. FOS e inulina) e/o probiotici (Lactobacillus) che aiutano a mantenere l’equilibrio della flora batterica intestinale.

La dieta da sola non è però sufficiente: va affiancata anche a regolare attività fisica e all’eliminazione di fumo, alcool, agenti inquinanti potenziando, in questo modo, le difese immunitarie dell’organismo.

Inoltre, occorre prestare molta attenzione all’igiene intima, utilizzando detergenti delicati o specifici anticandida, accompagnandoli anche da lavaggi esterni con acqua fresca che possono apportare un immediato sollievo al prurito.

Infine, non trascurare neppure l’abbigliamento: indumenti troppo stretti o che sfregano la zona dei genitali possono stimolare l’insorgenza di stati irritativi. In particolare, per la biancheria intima, privilegiare tessuti in cotone (mai in fibra sintetica che non lasciano traspirare la pelle costringendola a condizioni di umidità).

Cistite Donne

La cistite è un disturbo molto comune nelle donne, soprattutto in estate. Caldo e umidità sono i principali fattori che contribuiscono alla sua insorgenza. Scopriamo perché in questo periodo dell’anno aumenta il rischio cistite, quali sono i rimedi e come prevenirla.

Una donna su cinque ne ha sofferto almeno una volta nella vita. Colpisce sia le più giovani sia le adulte, con episodi più frequenti e fastidiosi soprattutto in estate. Di cosa si tratta? Della cistite, infiammazione della mucosa della vescica, generalmente di origine batterica. Nell’85% dei casi infatti a causarne la comparsa è l’Escherichia coli, batterio abitualmente presente nel grosso intestino.

La cistite è un disturbo molto comune nelle donne per motivi anatomici. In particolare, per via della brevità dell’uretra, ovvero del condotto che trasporta l’urina dalla vescica all’esterno, e della vicinanza con la vagina e l’orifizio anale che facilitano la risalita dei germi lungo l’uretra e la successiva colonizzazione della vescica.

I sintomi caratteristici di questa infiammazione sono dolore e/o bruciore durante e dopo la minzione, necessità di urinare più frequentemente, con emissione di piccole quantità di urina, sensazione di peso al basso ventre e di incompleto svuotamento vescicale.

L’estate è il periodo dell’anno nel quale aumentano i rischi d’insorgenza del disturbo per una serie di ragioni. L’aumento delle temperature fa sudare di più, ma spesso non si beve a sufficienza e quindi si produce meno urina. Caldo e umidità inoltre facilitano la proliferazione di microorganismi nell’area genitale e la loro migrazione verso la vescica. Altri fattori di rischio sono il contatto con la sabbia e il costume bagnato, l’uso di assorbenti interni o di indumenti aderenti e in materiale sintetico. A ciò si aggiunge la maggiore frequenza dell’attività sessuale: il coito facilita il trasporto dei germi e i sintomi compaiono entro 24-48 ore.

Il problema si può risolvere ma fondamentale è evitare il fai da te e rivolgersi al medico, sin dai primi fastidi. La terapia anti cistite prevede l’assunzione di antibiotici. In caso di dolore e bruciore persistenti, necessaria può essere l’urinocoltura, esame semplice che permette di identificare il germe responsabile dell’infiammazione e individuare poi il miglior antibiotico per debellarlo.

Passando poi alla prevenzione, importante è oltre che introdurre una adeguata quantità di liquidi (non meno di 1.5 litri), anche cercare di mantenere una regolare funzione intestinale. A tal proposito, utile è l’assunzione di fermenti lattici per riequilibrare la flora batterica intestinale. Per chi soffre di episodi ricorrenti, consigliabile infine è l’utilizzo di integratori naturali, a base ad esempio di mirtillo rosso e di D-Mannosio.

Congestione Bambini

La congestione (o blocco digestivo) è un disturbo molto frequente in estate. A soffrirne maggiormente sono i bambini, che spesso non sanno come riconoscere il problema dai primi segnali d’allarme.

Può venire se si mangia o si beve in fretta qualcosa di molto freddo, come un gelato o una bibita ghiacciata. Ma anche se dopo aver appena finito di mangiare un pasto abbondante si fa subito un tuffo in acqua oppure ci si mette a correre o giocare. Di cosa parliamo? Della congestione, un disturbo frequente in estate, complici per prima cosa gli sbalzi di temperatura. A essere più facilmente colpiti sono i bambini, perché sempre in movimento e spesso incapaci di riconoscere il problema sin dai primi campanelli d’allarme. La buona notizia è, con un intervento tempestivo e seguendo delle semplici regole, il disturbo si risolve in breve tempo. Ma quali sono i segnali di pericolo ai quali i genitori devono prestare attenzione?

Cos’è esattamente la congestione?

Con il termine congestione s’intente un blocco digestivo (blocco intestinale da freddo o congestione dello stomaco). Si tratta di una reazione di difesa che l’organismo attiva durante la digestione per mantenere la temperatura corporea costante. Dopo mangiato, il sangue fluisce nello stomaco e nell’intestino. In questa fase molto delicata, se si subisce un forte sbalzo termico, il corpo mette in atto un meccanismo cosiddetto di vaso-costrizione (restringimento dei vasi sanguigni) che diminuisce l’afflusso di sangue allo stomaco e all’intestino. Questo provoca il blocco digestivo. Il risultato è uno squilibrio circolatorio che porta con sé, oltre all’interruzione del processo digestivo, anche una serie di fastidi più o meno intensi. Si tratta di una problematica molto frequente in estate, perché con i bagni al mare, al lago o in piscina e con il maggiore consumo di bevande e cibi freddi si è molto più soggetti agli sbalzi termici.

Perché i bambini ne soffrono più di frequente?

Perché, rispetto agli adulti, hanno un apparato digestivo molto più delicato e quindi possono andare incontro più facilmente al blocco digestivo. Inoltre, spesso non riconoscono e non sanno interpretare i primi segnali di pericolo e, per questo motivo, possono essere più a rischio degli adulti in particolare se la congestione si verifica mentre sono in acqua.

Quali sono i sintomi della congestione?

I segni tipici del disturbo compaiono dopo aver mangiato generalmente in maniera graduale: prima, brividi e sudorazione fredda, pallore, sensazione di estrema stanchezza e spossatezza, poi crampi o mal di stomaco e dolore alla pancia, nausea e/o vomito. A seguito di un rapido e intenso sbalzo di temperatura , il cosiddetto shock termico, può insorgere una congestione fulminea che può causare uno svenimento. Quando ciò accade in acqua, c’è il rischio che sopraggiunga anche la morte per annegamento.

Quali sono le cause del disturbo?

Ci sono una serie di comportamenti che possono indurre questo blocco: passare velocemente da un locale con aria condizionata a uno con temperatura elevata o viceversa; esporsi a una corrente di aria fredda; bere di fretta una bevanda ghiacciata oppure fare un tuffo in acque molto fredde, quando si è surriscaldati e in fase digestiva; svolgere un’attività fisica intensa subito dopo un pasto abbondante o ricco di cibi grassi ed elaborati. Bisogna però tenere presente che le reazioni del corpo a questi comportamenti possono variare a seconda della persona e di quel che ha mangiato. Il processo digestivo infatti inizia 20-30 minuti dopo il pasto e può durare diverse ore, se il pasto è stato abbondante e ricco di grassi, oppure può impiegare molto meno tempo, se si consumano cibi più leggeri.

Come intervenire? E come evitare che succeda di nuovo?

Cosa è opportuno fare in caso di congestione?

È fondamentale imparare a riconoscere i primi segnali d’allarme, così da poter intervenire in tempo ed evitare conseguenze che possono essere anche gravi. Nel caso dei bambini, è importante che i genitori prestino sempre attenzione alle attività svolte in particolare subito dopo il pasto.  Alla prima sensazione di malessere è opportuno sospendere ogni attività, distendersi con le gambe sollevate rispetto alla testa in un luogo ben ventilato ed asciutto, tenere calda la pancia per ripristinare la temperatura corporea e riattivare la digestione effettuando un lieve massaggio. È utile anche inumidire di tanto in tanto la fronte con un panno imbevuto d’acqua a temperatura ambiente. Se la congestione è avvenuta dopo un bagno, è bene asciugarsi e riscaldarsi immediatamente. Dopo che la temperatura corporea si è ristabilita, può essere utile bere a piccoli sorsi liquidi tiepidi o a temperatura ambiente. In genere, dopo circa 2-3 ore i disturbi scompaiono ma può rimanere una sensazione di stanchezza con dolori muscolari. Se i fastidi non regrediscono, è consigliabile chiamare i numeri telefonici di emergenza e/o recarsi in pronto soccorso.

In che modo si può prevenire?

Evitando i forti sbalzi termici. In particolare, dopo il pasto, sarebbe meglio non passare improvvisamente da un luogo molto caldo ad un ambiente con aria condizionata o viceversa, bere bevande ghiacciate o mangiare cibi molto freddi, tuffarsi subito in acqua o svolgere un’attività fisica intensa. In generale si raccomanda di seguire il buon senso: se si è consumato un pasto abbondante è preferibile aspettare 2-3 ore prima di fare il bagno, se invece si è mangiato cibi molto leggeri o si è fatto uno spuntino a base di frutta o verdura, allora si può entrare in acqua anche subito. Un consiglio utile è quello di bagnarsi gradualmente, partendo prima dai polsi e dalle tempie, per abituare il corpo alla diversa temperatura, ed evitare il cosiddetto shock termico. L’importante in ogni caso è ascoltare il proprio corpo e saper valutare la condizione fisica del momento. Nel caso dei bambini, si raccomanda ai genitori di tenerli sempre d’occhio e non lasciarli mai da soli in acqua.

Cuffia dei Rotatori

Cos’è la cuffia dei rotatori e come si può danneggiare?

La cuffia dei rotatori è una parte anatomica dell’arti-colazione della spalla formata dall’insieme dei tendini di quattro muscoli (sovraspinato, sottospinato, piccolo rotondo, sottoscapolare) che collega l’omero con la scapola, consentendo l’elevazione e la rotazione del braccio e mantiene stabile la spalla durante i movimenti del braccio.

Due sono le cause di lesione della cuffia dei rotatori:

*La prima, è il deterioramento della qualità del tendine con-seguente a microtraumi ripetuti, associati al progressivo logoramento del tessuto/tendi-neo per l’età.

*La seconda causa, si verifica in occasione d’eventi traumatici violenti come, ad esempio, cadute sull’arto superiore o lussazioni soprattutto in persone sopra i quaranta anni.

Quali sono i sintomi?

Il sintomo principale è il dolore

notturno nella zona della spalla e del braccio, associato alla progressiva perdita di forza e del movimento del braccio.

Le lesioni parziali dei tendini della cuffia provocano gene- realmente dolore continuo alla articolazione della spalla con movimento del braccio con- servato. Le lesioni ampie della cuffia dei rotatori, che comportano la completa rottura di uno o più tendini, general- mente oltre al dolore causano una graduale diminuzione della mobilità dell’ articolazione, talvolta con l’impossibilità di elevare il braccio oltre i 90°.

Come si fa la diagnosi?

L’esame clinico generalmente consente di individuare le conseguenze di una lesione della cuffia dei rotatori: movimento limitato, perdita di forza e dolore in alcune posizioni dell’arto. La visita medica si completa con esami specifici,

Radiografie

Questa indagine permette di valutare la condizione delle strutture ossee della spalla.

Ecografia
L’esame ecografico visualizza i muscoli e i tendini della spalla.

Risonanza magnetica (RMN)

La RMN consente l’ottimale controllo della sede ed estensione del danno tendineo come dello stato dei muscoli che corrispondono alla parte del tendine malato.

Quando è necessario un intervento chirurgico?

Nei casi cronici il trattamento si basa inizialmente su: terapie mediche per ridurre il dolore, istruzioni per un utilizzo protetto dell’arto nei movimenti della vita quotidiana ed esercizi rieducativi per potenziare la spalla. Se il dolore persiste e/o la mobilità del braccio non migliora dopo la terapia medica e le sedute riabilitative, può essere consigliato un intervento chirurgico.

In che cosa consiste l’inter-vento chirurgico?

L’intervento di ricostruzione consiste nella reinserzione dei tendini danneggiati nell’osso attraverso ancorette o fili di sutura. Lo scopo è eliminare il dolore e migliorare la funzione dell’ articolazione.

L’artroscopia si utilizza con successo nelle lesioni di piccole e medie dimensioni dei tendini della cuffia. Questa tecnica utilizza uno strumento chiamato artroscopio che introdotto nella articolazione attraverso una piccola incisione chiamata portale, rende possibile la visualizzazione delle strutture interne della spalla. Un altro vantaggio dell’intervento artroscopico è che può essere eseguito in day-hospital, con utilizzo di anestesia loco-regionale. La tecnica a cielo aperto si utilizza nei casi di lesioni estese in cui l’artroscopia non consentirebbe una adeguata visualizzazione e riparazione. Questa procedura viene eseguita in anestesia sia loco-regionale che generale, e comporta una degenza media di due, tre giorni. A volte i tendini ed i muscoli, a causa di lesioni verificatesi anni addietro, sono così atrofici e ristretti da non poter essere più riportati nella loro sede per il reinserimento dell’osso. L’intervento chirurgico, in questo caso, sarà finalizzato a ridurre il dolore.

Dopo l’intervento chirurgico sono necessari esercizi ginnici?

Una riabilitazione mirata è essenziale per ottenere il miglior risultato funzionale dopo l’inter- vento chirurgico. L’inizio degli esercizi deve essere effettuato il più presto possibile facendo attenzione a non sovraccaricare l’articolazione per evitare l’allentamento dei punti di sutura e la guarigione del tendine. L’intensità e le restrizioni del programma d’esercizi dipendono dal tipo di lesione verificatasi e dal tipo di chirurgia a cui si è stati sottoposti. Nei casi d’interventi effettuati solo per ridurre il dolore, l’arto può essere utilizzato gradualmente dopo tre quattro settimane di riposo.

Ortopedia Pediatrica: il Piede Piatto

Il piede piatto è tipico nei primi anni di vita del bambino, quando l’arco della pianta del piede è poco formato o assente. È flessibile, non provoca dolore e non comporta problemi nei movimenti, perciò è un piede fisiologico, cioè normale. Lo osserviamo in quasi tutti i bambini da zero a due anni (97%) e si riduce progressivamente con l’aumentare dell’età, fino a circa il 50% a tre anni, il 25% a sei anni, e a dieci anni solo pochi bambini ce l’hanno ancora. Si definisce quindi piede piatto flessibile, idiopatico, perché non se ne conosce una causa specifica, ma è probabilmente la conseguenza dell’interazione tra i molteplici fattori che contribuiscono a formare l’arco plantare.

Quando farci caso?
Ci si accorge del piede piatto quando il bambino, attorno all’anno di età, arrampicandosi alla sponda del lettino o a una sedia, riesce a mettersi in piedi: sotto il peso del corpo i piedini si appiattiscono e i talloni si inclinano verso l’interno, perché le ossa e le articolazioni a quell’età sono flessibili e i muscoli sono poco sviluppati. Inoltre, un cuscinetto di grasso nel bordo interno del piede contribuisce a nascondere l’arco plantare. Questo aspetto dei piedi, fisiologico fino ai tre anni di età, è causa frequente di preoccupazione nei genitori che richiedono addirittura una visita ortopedica: troppo spesso questa si conclude con l’inutile prescrizione di un plantare o di scarpe ortopediche, con il proposito, senza alcun fondamento, di dare la giusta forma al piede. Il 90% dei casi di piede piatto viene quindi trattato senza che sia necessario.

Il plantare non serve
Guardiamo per esempio cosa accade ai piedi del bambino quando, spinto dal desiderio di prendere qualcosa che ha notato sopra il tavolo, prova a sollevarsi sulle punte. I muscoli, che dal tallone vanno alla base dell’alluce, si tendono come la corda di un arco, e danno forma alla pianta del piedino. I calcagni invece, che erano inclinati verso l’interno, si allineano con le gambe lasciando che l’arco plantare prenda forma. Si tratta del tipico comportamento di un piede piatto fisiologico, e del suo sviluppo. Non serve un plantare, né tanto meno scarpe ortopediche.

Campanelli di allarme
Solo in rari casi il piede piatto può diventare doloroso o rigido, ossia se alla base c’è una patologia del piede: ad esempio un’infiammazione, un’anomalia della forma o dei rapporti tra le ossa che lo compongono. Non possiamo prevedere a quali bambini potrà accadere e non esistono prove che sia possibile prevenire quest’evoluzione patologica usando precocemente plantari, inserti, scarpe ortopediche o rinforzi. Le evidenze scientifiche attuali ci suggeriscono che il modo più sicuro e appropriato di seguire i bambini con i piedi piatti, che non provano dolore o difficoltà a camminare, è semplicemente osservarli nel tempo. Dolore e difficoltà nel movimento sono campanelli d’allarme che i genitori stessi devono segnalare al pediatra.

La diagnosi di piede piatto fisiologico
Il piede piatto si diagnostica attraverso l’esame clinico, valutando il bambino sia in posizione eretta sia seduta. Il pediatra lo guarda mentre sta in piedi, fermo, e mentre cammina, per valutare l’aspetto dell’arco plantare (normale, insufficiente o assente) e del calcagno rispetto alla gamba (in linea o valgo). In seguito, di solito, può rassicurare i genitori mostrando loro che il piede piatto si evidenzia in posizione eretta, sotto il peso del corpo, ed è reversibile nel momento in cui il bambino si mette in punta di piedi.
Nel corso delle visite periodiche, però, se è comparso dolore, se il piede piatto è rigido e non regredisce sulle punte, se è peggiorato, o se dopo gli otto anni non c’è segno di miglioramento, sarà opportuna una visita ortopedica per formulare una diagnosi e impostare la terapia necessaria, dal sostegno plantare alla fisioterapia, fino all’intervento chirurgico. In tutti gli altri casi di piede piatto flessibile asintomatico, senza dolore, bisogna solo aspettare e vigilare, dando a tutti i bambini, ogni giorno e a ogni età, a casa, a scuola o all’aperto, la possibilità di muoversi liberamente, meglio se a piedi nudi o con calzature morbide. Per valutare l’evoluzione del piede piatto nel tempo può essere utile visualizzare l’immagine dell’impronta del piede su carta copiativa, o al podoscopio, e confrontarla con le immagini delle valutazioni successive: il piede normale poggia sul suolo con la porzione anteriore, laterale e posteriore della pianta, mentre la superficie interna del piede non poggia a terra perché è a forma di arco; il piede piatto invece appoggia a terra con tutta o gran parte della sua superficie plantare. Nel corso della visita è molto importante anche controllare se il bambino ha un’iperlassità dei legamenti con aumentata mobilità delle articolazioni, fattore di rischio per la comparsa di dolore nel piede piatto.

I fattori di rischio
Il piede piatto è più frequente nei maschi e nei primi anni di vita, e alcuni fattori possono predisporre al suo sviluppo e alla sua persistenza. In particolare, tra tre e sei anni, influisce un’aumentata lassità delle articolazioni e l’abitudine a sedere in posizione a “ranocchia” o “W”, e anche l’obesità, che rimane un fattore di rischio di persistenza del piede piatto. Tutti questi fattori, assieme a una storia familiare di piede dolente e di utilizzo di calzature speciali devono essere di ulteriore stimolo all’accurata sorveglianza dello sviluppo del bambino.

Caratteristiche tipiche del piede piatto fisiologico flessibile

L’arco plantare:

È presente se il bambino è seduto (dai 2 anni circa)
Si forma flettendo l’alluce verso il dorso del piede
Scompare sotto il peso del corpo se si mette in piedi
Si riforma se il bambino si mette sulle punte dei piedi

Scegliere con saggezza
Lasciare muovere il bambino a terra, in completa libertà, già dai primi mesi
Non mettergli le scarpe appena comincia a stare in piedi
Evitare il passeggino quando cammina ormai sicuro
Evitare le scarpe rigide, con plantare e zone di rinforzo, perché non aiutano a formare il piede
Far camminare il bambino a piedi nudi anche su terreni irregolari come erba, terra e sabbia in modo da stimolare la pianta del piede
Non chiedere la consulenza ortopedica per il piede piatto se il bambino non ha dolore, cammina bene e ha meno di otto anni
Non usare plantari o scarpe ortopediche in caso di piede piatto fisiologico, perché non è stata dimostrata alcuna efficacia terapeutica
Se le calzature sono necessarie, per motivi igienici, estetici o per il freddo, scegliere le più morbide, flessibili e leggere
Favorire l’attività motoria a tutte le età: camminare, fare giochi in punta di piedi e camminando sul bordo esterno dei piedi, correre, saltare, arrampicarsi e ballare.

Menopausa

La menopausa non è una malattia ma un momento fisiologico della vita della donna che coincide con il termine della sua fertilità. Tuttavia in questo periodo della vita alcune donne accusano dei disturbi per i quali esistono cure e rimedi utili a garantire loro comunque una buona qualità di vita.

In genere si verifica tra i 45 ed 55 anni di età, ma non sono rare menopause precoci e tardive. Già alcuni mesi prima della cessazione delle mestruazioni si osservano alterazioni del ciclo mestruale (mestruazioni ravvicinate e abbondanti oppure più distanziate tra di loro). Nello stesso periodo le ovaie cessano la loro attività e, di conseguenza, diminuisce nel sangue la quantità degli estrogeni, cioè di quegli ormoni prodotti fino allora dalle ovaie.

Quando calano gli estrogeni la donna è più esposta al rischio di alcune malattie serie

La diminuzione degli estrogeni può provocare alcuni disturbi e sintomi, sia di natura neurovegetativa (vampate di calore, sudorazioni profuse, palpitazioni e tachicardia, sbalzi della pressione arteriosa, disturbi del sonno, vertigini, secchezza vaginale e prurito genitale), sia di natura psicoaffettiva (irritabilità, umore instabile, affaticamento, ansia, demotivazione, disturbi della concentrazione e della memoria, diminuzione del desiderio sessuale).

Le conseguenze più importanti del calo degli estrogeni sono: l’aumento del rischio cardiovascolare (infarto cardiaco, ictus cerebrale, ipertensione), le patologie osteoarticolari, in particolare  l’aumento dell’incidenza dell’osteoporosi. Fino alla menopausa, infatti, le donne hanno un rischio cardiovascolare inferiore a quello degli uomini perché gli estrogeni prodotti dalle ovaie garantiscono una minore quantità di colesterolo nel sangue. Le malattie cardiovascolari rappresentano, inoltre, la principale causa di morte per la donna in menopausa, superando di gran lunga tutte le forme di neoplasie, compreso il cancro della mammella.

Non dobbiamo inoltre sottovalutare l’aumento del peso corporeo, che si verifica in misura variabile in tutte le donne in menopausa e rappresenta un problema in più del 50% delle donne oltre i 50 anni.  La carenza estrogenica condiziona, insieme all’età, un rallentamento del metabolismo in generale e aumenta l’appetito con una distribuzione del grasso corporeo “a mela”, cioè a livello della cintura, un sede tipica del sesso maschile, che comporta maggior rischio cardio-vascolare.

Cosa fare

La prevenzione delle complicanze cardiovascolari e osteoarticolari può essere messa in atto fin da subito. Come prima mossa occorre seguire un regime dietetico controllato.

Nella scelta degli alimenti è bene privilegiare quelli integrali, poiché più ricchi di fibra alimentare, vitamine e sali minerali. Il principio guida deve essere la varietà con moderazione, tagliando fuori i grassi in eccesso e i cibi troppo salati, bevendo almeno 25 ml di acqua per kg corporeo e privilegiando le spezie.

Per quanto riguarda il trattamento dei sintomi, è essenziale identificare una terapia appropriata e personalizzata in base alle esigenze della donna. Tra le varie terapie utili a risolvere i sintomi connessi alla menopausa, la terapia ormonale sostitutiva può essere d’aiuto e, contemporaneamente, proteggere nei confronti dell’osteoporosi e delle malattie cardiovascolari, se somministrata correttamente, dopo un accurato esame clinico della paziente. Il medico dovrebbe sempre valutare il rapporto rischio/beneficio quando prescrive una terapia alla donna con disturbi in menopausa, in modo da aiutare la donna stessa ad operare una scelta informata.

Per molte donne, infatti, un’appropriata terapia ormonale, pianificata e monitorata con cura, può aumentare la vita media e migliorare, in modo significativo, la qualità di vita degli anni postmenopausali. È infatti possibile rendere prevenibili le patologie cronico-degenerative, le loro complicanze e i tumori.

Equipe:

Dott. Bartolo Parrinello – Ginecologo – Responsabile “Progetto Donna”.

Dott. Giovanni Cardinale – Senologo – Visita senologica ed ecografia.

Dott. Francesco Giacco – Ortopedico – Cura e prevenzione dell’osteoporosi.

Dott.ssa Giuseppina Buffa – Radiologo – Ecografie mammarie.

Dott. Giovanni Cuccia – Neurologo – Prevenzione e cura della depressione.

Prevenzione Urologica Maschile

Sindromi Depressive

Quando i neuroni sono fuori forma, gli antidepressivi potrebbero non funzionare

La crescita del neurone alterata e l’espressione genica possono essere correlate al motivo per cui alcuni individui depressi non rispondono agli SSRI

Spesso la depressione è curata con una classe di farmaci chiamata “inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)”.

Purtroppo i medici non riescono ancora a capire perché il trattamento non funziona in circa il 30% dei pazienti. La causa della depressione è purtroppo ancora sconosciuta ma gli scienziati ritengono che la malattia sia in parte legata al circuito serotoninergico del cervello. Tuttavia, il meccanismo del perché alcune persone rispondono agli SSRI, mentre altri no, rimane un mistero. I ricercatori hanno recentemente osservato che le cellule serotoninergiche dei pazienti che non rispondevano alla terapia avevano proiezioni di neuroni più lunghe rispetto a quelli che rispondevano. L’analisi genica ha rivelato che anche i non responder SSRI avevano bassi livelli di geni chiave coinvolti nella formazione di circuiti neuronali. Queste caratteristiche anormali potrebbero portare a troppa comunicazione neuronale in alcune aree del cervello e non abbastanza in altre parti, alterando la comunicazione all’interno del circuito serotoninergico e spiegando perché questi farmaci non sempre funzionano per trattare la depressione.

“Questi risultati contribuiscono a un nuovo modo di esaminare, comprendere e affrontare la depressione”, afferma l’autore dello studio

Il passo successivo consiste nell’esaminare i geni coinvolti per comprendere meglio la genetica dei non responder alla terapia

Come potete constatare la ricerca sta facendo passi da gigante; la speranza è che, in tempi non troppo lunghi, si possa avere un quadro chiaro delle alterazioni organiche che stanno alla base dei disturbi della sfera psichica e che si possa quindi individuare una terapia personalizzata e “cucita” addosso al paziente considerando le numerose componenti (ambiente, genetica, alterazioni neurotrasmettitoriali) alla base di un disturbo così invalidante e destruente quale la depressione.

Centro per la diagnosi delle Sindromi Depressive

Equipe:

Dott. Giovanni Cuccia- Neurologo- Responsabile del Servizio

Dott.ssa Paola Errera – Neuropsicologa – Psicoterapeuta

Dott.ssa Antonina Giocondo – Tecnico di Neurofisiopatologia

Ernia del Disco

L’Ernia del Disco o Lombosciatalgia è caratterizzata da dolori a livello del rachide lombare o lombosacrale, che s’irradiano all’arto inferiore dove si trova il nervo sciatico.

Il dolore può localizzarsi sia posteriormente (regione glutea, faccia posteriore di coscia e gamba) verso la  pianta del piede, sia irradiarsi alla parte laterale di coscia e gamba verso il dorso del piede e all’alluce.  Il dolore lombosciatalgico, causato dalla compressione nervosa (dolore radicolare) viene spesso descritto come acuto, lancinante, relativamente ben delimitato, simile a una scossa elettrica; possono essere presenti e concomitanti alterazioni della sensibilità quali formicolio, intorpidimento, riduzione della forza di alcuni gruppi muscolari della gamba, del piede, della coscia e conseguenti difficoltà nel cammino.

Quali sono le cause della Lombosciatalgia?

  • lavori pesanti
  • sollevamento occasionale di pesi
  • torsione ripetitiva del tronco
  • alterazioni patologiche della curve della colonna vertebrale
  • eventuali precedenti interventi chirurgici alla colonna vertebrale (recidive erniarie).

Artrosi dell’Anca

Che cosa è: Patologia cronica della cartilagine articolare dell’anca, causata dalla sua usura. La cartilagine articolare riveste le due ossa dell’ anca: la testa del femore ed il bacino. Nel femore riveste la testa che è di forma sferica, nel bacino la cavità cotiloidea. La funzione della cartilagine articolare è quella di rendere scorrevoli le superfici articolari, ammortizzare i carichi e ridurre l’attrito tra le ossa permettendo un’armonico movimento tra di esse.

Quale è la causa: come tutti i tessuti del corpo umano anche la cartilagine articolare subisce delle modificazioni strutturali dovute all’età diventando così più fragile. Altri fattori concorrono alla sua usura: l’eccesso di peso, le alterazioni della geometria dovute a displasia congenita dell’anca ed i postumi di fratture di femore e bacino.

Segni e sintomi: I sintomi clinici principali sono: il dolore, il gonfiore e la limitazione funzionale.
Il dolore è causato dal contatto osso con osso, con deformità dell’articolazione ed infiammazione di tutte le altri componenti.
Il gonfiore è prodotto dalla membrana sinoviale infiammata. Infine la limitazione funzionale è data dalla deformità dell’articolazione che porta il paziente a zoppicare.

Diagnosi: la diagnosi è clinica e radiografica. Clinicamente l’ortopedico deve valutare le parti dolorose dell’articolazione, la presenza di versamento articolare, se sono presenti deformità e misurare l’arco del movimento dell’anca. Per confermare la diagnosi si eseguirà una radiografia del bacino sotto carico (in piedi).

Trattamento: Il trattamento è essenzialmente chirurgico. Si sostituiscono le parti usurate dell’articolazione con protesi metalliche che ripristinando il normale movimento dell’anca eliminano il dolore.